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Una conduzione in crisi

La Conduzione di un piccolo gruppo di bambini con tratti autistici si presenta come un’esperienza particolare, anche difficile da raccontare utilizzando i termini comuni, quasi che, per una sorta di isomorfismo con la situazione terapeutica, anche la riflessione dell’analista non possa facilmente essere comunicata.
In un primo momento questo gruppo era nato come coterapia di due bambini con due terapeuti e ben presto era parsa evidente la difficoltà e anche l’inutilità di favorire la relazione fra i due bambini: Guido continuava a lanciare scarpe, calzini e oggetti vari dappertutto oppure “dormiva” sulla cassa delle costruzioni coperta dal guanciale, mentre Federico costruiva sempre la stessa casa dall’equilibrio improbabile, dove nessuno mai abitava.
In questa prima fase il tentativo di pensare alla situazione terapeutica, cercando un riferimento nel proprio modello teorico, appariva quasi irreale e non si riusciva a sistemare in una griglia interpretativa il materiale di queste sedute, apparentemente così uguali a sé stesse, spezzoni di sequenze bizzarre mescolati in vario modo, ma sempre senza una continuità rintracciabile, come in un film montato male.

E, anche se la continuità temporale e l’entrata di un terzo bambino sembravano consentire una maggiore connotazione in senso gruppale del setting, pure, pensare al potenziale trasformativo del gruppo terapeutico e ai quattro livelli di comunicazione compresenti, secondo Foulkes, nella situazione gruppoanalitica, non sembrava possibile.

Soprattutto nel primo anno, l’interazione pressoché inesistente dei bambini fra loro non consentiva certo di pensare ai livelli relazionali, sia sul piano interpersonale, che su quello intrapsichico; d’altro canto il livello primordiale, inerente le immagini dell’inconscio collettivo, seppur forse presente, non si rivelava all’osservazione analitica.

In realtà per molto tempo Federico, Guido e Carlo, entrato successivamente, sembravano non poter utilizzare la situazione terapeutica neppure come ambiente sé ed era difficile anche per noi terapeuti parlare di “gruppo”, mentre ci veniva molto più facile riferire alla “stanza del gruppo”, che in tempi relativamente brevi ci era sembrata forse l’unico riferimento comune ai tre bambini ed al gruppo dei terapeuti.

In una situazione terapeutica di questo tipo non si può parlare di matrice dinamica, ma sembra piuttosto di assistere ad una rappresentazione del vuoto. Ciò che forse meglio si avvicina a descrivere le sedute di questo primo periodo sembrano le considerazioni di Winnicott circa gli stati di non integrazione, integrazione e disintegrazione.

Come se dietro alla situazione di disintegrazione manifestata individualmente, questi bambini, una volta entrati nella stanza del gruppo, finissero col mettere reiteratamente in scena il fallimento del passaggio dallo stato di non integrazione a quello di integrazione (Winnicott ’88). Al tempo stesso però questa rappresentazione ripetuta nella stanza, alla presenza pure “inamovibile” delle terapeute, sembra aver consentito la creazione di legami, sia pure rudimentali, e, probabilmente, una prima fruizione della situazione come ambiente sé.

L’idea che nel tempo certi comportamenti stereotipati avessero assunto forse un altro significato è sorta quando ci è parso di cogliere meno ansia nei lanci di Guido e, semmai, un atteggiamento quasi esplorativo, come se il bambino non si limitasse più a lanciare gli oggetti, ma avesse cura di mandare qualcosa a finire sopra un armadio, qualcos’altro all’angolo opposto della stanza e, se possibile, qualcosa sotto un altro mobiletto.

E così, se dapprima nei lanci di Guido eravamo riuscite a vedere soltanto la messa in scena del suo andare in pezzi, adesso si poteva pensare che il bambino stesse cercando di verificare dei confini, quasi di testare un contenitore. D’altro canto la strana casa costruita ossessivamente da Federico, che inizialmente avevamo considerato come semplice espressione dell’assenza di relazioni anche simboliche, sembrava somigliare sempre più in qualche dettaglio alla stanza, e poteva essere abitata da un coccodrillo chiamato “animale”.

Poi, per Guido lampade e tavolini nella stanza hanno cominciato a piangere, mentre la casa di Federico diveniva anche lo scenario possibile di complicate vicende familiari che il bambino si sforzava di narrare. La nuova colorazione di comportamenti stereotipati ha segnato, direi, l’avvenuta introiezione della stanza, intesa quale ambiente Sé, non solo in quanto contenitore di frammenti, ma anche come luogo in cui si producono emozioni.

E’ stato più o meno in questo periodo che nel gruppo è entrato Carlo, un bambino fornito di maggiori difese dall’angoscia, che riempiva continuamente il suo “vuoto” con racconti di strane avventure dove il coccodrillo che morde, i cattivi che vincono, le astronavi che distruggono, apparivano come mezzi per prolungare quella distruzione che in ogni modo avrebbe portato ad un nulla.

Ma per Carlo era importante edificare di nuovo, per distruggere ancora, e Guido cominciava talvolta a recuperare le scarpe lanciate sull’armadio, per poi lanciarle di nuovo.

In questa fase per ogni bambino la percezione degli altri, sia a livello singolo, che come gruppo, appariva quasi inesistente, mentre fin dall’inizio erano comparsi scambi sensibili, seppure rudimentali, con le “dottoresse”, come se “la presenza del terapeuta”, considerata da Nacht quale primo motore della relazione analitica, si fosse realizzata in un primo momento proprio nelle relazioni dei terapeuti fra loro, facendo delle dottoresse gli oggetti della stanza visibili ai bambini.

Pensando a quel processo di “ricreazione del mondo”, di cui tratta Nucara nel descrivere la natura neotenica della matrice dinamica, si può forse ipotizzare che questo particolare setting abbia funzionato al livello primitivo delle immagini corporee, consentendo alla stanza di “entrare dentro” e di costituirsi come ambiente atto a mettere in scena relazioni rudimentali con oggetti interni ora percepibili.

La seconda fase nella storia di questo gruppo si è manifestata con i primi momenti di vicinanza fisica: fare i salti sul materasso, fare il girotondo, stare al tavolo con il das, i fogli, i colori.

Momenti brevi, un filo esile che si spezza facilmente, ma ormai le tre terapeute cominciano ad usare più facilmente la parola gruppo, come se nello stare dei bambini qualcosa indicasse che non si tratta più solo della stanza, forse adesso è proprio il gruppo a rappresentare l’oggetto sé. Un gruppo che sembra aver preso vita nel movimento, inteso come alternanza fra la partecipazione al gioco comune ed il ritiro in attività solitarie.

Come se da questa alternanza di stati fossero lentamente emerse coordinate più evolute di quell’ambiente interno che, in un primo momento, aveva potuto definirsi solo attraverso la stabilità della stanza e la presenza dei terapeuti.

Certo, si tratta di un oggetto sé che può rompersi facilmente, quando qualcuno manca o quando si annuncia la sospensione per le feste natalizie, ma è proprio il timore di questa rottura che sembra svelare il legame.

La matrice emerge nel momento in cui la mancanza può essere avvertita e verbalizzata. E la mancanza, da un certo momento, sembra attraversare le sedute: mancano le parole di Luciano, mancano le mani di Guido, manca Carlo che non è proprio venuto, ma ci si ricorda di Federico che manca perché non viene più. Insomma l’idea dell’altro è ormai presente, in questo momento comincia il gioco dei carichi, dove, seduti a terra, si inviano macchinine e camioncini carichi di…, oppure si utilizzano palline e ciambelle per raggiungere silenziosamente qualcuno.

E tutte queste traiettorie sembrano rappresentare ad un tempo la matrice gruppale e quell’insieme di relazioni embrionali che cominciano a stabilirsi nel mondo interno dei bambini.

Finché un giorno Guido, dichiara: “oggi Guido ha giocato”, riuscendo non solo a sperimentare la relazione con gli altri bambini, ma anche ad interiorizzarla abbastanza da poterla raccontare.
Nel tempo il gruppo si è andato modificando attraverso entrate e uscite, per tutti la stanza è stata il primo riferimento sensibile, ma per i nuovi arrivati la conquista del gruppo come oggetto Sé, ci pare abbia richiesto tempi relativamente brevi.

Forse Giulio, Gaia e Amelia hanno potuto usufruire di una matrice esistente, entrando ad avere la sua storia, che ci racconta Guido, unico bambino presente dalle prime sedute ad oggi, quando comincia a ricordare Federico, Carlo, Luciano, chiedendo dove sono. Anche se la situazione dal momento di avvio ad oggi è sensibilmente mutata e gli scambi dei bambini fra di loro e con le terapeute appaiono sicuramente più evoluti, una certa difficoltà di cogliere lo “svolgimento” delle singole sedute permane. Storie di manine, di calzini e bambolotti Solo considerando gli appunti delle sedute dalla data d’inizio, adesso è possibile, anche alla luce delle ultime sedute, rintracciare nei frammenti di frase e nei comportamenti di Guido, il bambino che è stato nel gruppo fin da l’inizio, un discorso, dapprima incomprensibile nella sua frammentarietà, che sembra essersi da subito organizzato attorno a pochi elementi: i calzini; la mano, la macchinina, i due bambolotti maschio e femmina.

Nel corso del primo anno, l’attività preferita di Guido, il lancio di tutto quello che gli capitava per le mani, si connotava di particolare impegno nel lancio di scarpe e calzini, mentre si manifestava una particolare difficoltà a servirsi delle mani per qualunque altra attività, tranne il lancio di oggetti e la masturbazione.

L’attenzione del bambino pareva attratta anche da una macchinina, definita per lo più rotta o bloccata. In questo periodo Guido passava molto tempo a fingere di dormire e l’interazione era molto scarsa. Successivamente, Guido comincia a nominare le proprie mani ed a parlare di una mano rotta, talvolta siede facendo scomparire e riapparire le mani sotto di sé e dice che le mani non ci sono, continua a rifiutarsi di usarle a scopi funzionali e quando viene sollecitato ad un gioco comune che implica di mettere le mani sul tavolo, se accetta di farlo regredisce sul piano verbale. Verso la fine dell’anno subentra l’interesse per i bambolotti, il maschio e la femmina, che solitamente viene buttata via con grande angoscia.
Negli anni successivi, permangono i rituali legati alla sparizione delle mani, alla masturbazione, spesso con la mano nascosta, al lancio dei calzini dove non si possono facilmente recuperare, all’elencazione delle macchinine, sempre rotte o bloccate, alla bambola femmina cui tira i capelli, prima di gettarla via.

D’altro canto Guido interagisce molto più frequentemente con gli altri bambini, oltre che con le terapeute.

E’ soltanto in questi ultimi due anni, sempre seguendo a ritroso la traccia degli appunti, che Guido sembra ripetere frequentemente una stessa sequenza che parte con il lancio dei calzini, passa attraverso il tentativo di tirare i capelli di una terapeuta e si conclude con il lancio della bambola femmina e l’affermazione che il maschietto ha fatto la cacca sotto. In questo periodo oltre a manifestare un chiaro transfert amoroso per la terapeuta “dai capelli lunghi”, Guido comincia a parlare di un gigante, che sembra temere molto, e al tempo stesso nomina frequentemente il padre, che lo attende fuori.

E’ pure nel corso di questi due anni che, anche se con una certa resistenza, Guido accetta di fare il calco della mano con il das oppure di lasciar disegnare il contorno della propria mano. Questo gioco, prima accettato a fatica, finisce con l’essere richiesto e le terapeute si trovano a disegnare mani di vari colori ritagliandole su carta rigida.

Da qui nasce il gioco delle manine gialle, blu, rosse etc che sembra talvolta rasserenare Guido, come se, verrebbe da dire, il bambino potesse sentire gestibili le mani di carta e forse, per associazione, le proprie. Intanto le macchinine vengono ancora usate per i carichi ma, sembrerebbe, non sono più rotte, o per lo meno Guido non ne parla più in tal senso. Adesso le macchinine rappresentano un momento sereno, “relazionale”, mentre avviene uno spostamento sui bambolotti.

Spesso la femmina viene definita rotta, ma talvolta anche il maschio e comunque entrambi hanno fatto la cacca sotto. In questo periodo il gruppo, composto da tre bambini e tre terapeute, raggiunge un punto di evoluzione in cui è possibile, talvolta, giocare insieme raccontando fiabe e mimandone qualche pezzetto, oppure, improvvisando in vario modo, con materiale presente nella stanza o con le manine ritagliate o facendo a turno il gigante, etc.

E’ stato in una di queste situazioni che si è verificato “il racconto” di Guido, che, nel suo linguaggio un po’ sincopato, ma ormai perfettamente comprensibile per tutto il gruppo, ha “cominciato a narrare” la sua vicenda partendo da una affermazione, già fatta altre volte, relativamente alla terapeuta oggetto del suo transfert amoroso.
Guido: “Tiziana ha le calze rotte”
Terapeuta: le calze rotte?
Guido: “le manine piangono”
Terapeuta: perché piangono
Guido: “papà botte manine…. maschio cacca sotto”
Terapeuta: …perché le botte alle manine?
Guido: le manine rompono calze di mamma…e di Patrizia(? )… e di Tiziana.
Questo per noi terapeute, è il “racconto” di Guido. ovviamente non ci siamo poste il problema di stabilire se fosse un racconto attinente ad un fatto o se si trattasse di una fantasia, che, comunque non abbiamo sentito il bisogno di interpretare sia pure fra di noi. Quello che ci ha sorpreso è stata la sequenza logica che Guido – il bambino che nel primo anno aveva solo lanciato calzini e dormito sul guanciale – era riuscito a mettere insieme ed a trasmetterci.

Non solo: la forza di questa comunicazione è stata tale da indurre Amelia – una bambina entrata nel gruppo dopo un percorso individuale e riabilitativo, ma ancora molto ritirata nella relazione con gli altri- ad intervenire raccontando una storia di zingari cattivi che portano via e di mamma che da le botte se lei si allontana. Anche qui non rileva quanto si stia parlando di fatti o di fantasie.

Ciò che può apparire banale in gruppi di bambini meno gravemente disturbati è assolutamente straordinario in un gruppo di bambini con tratti autistici, dove – anche se dopo un lungo lavoro si possono cominciare a vedere degli scambi verbali su elementi contingenti – la possibilità di una narrazione, per di più reciproca, appare quasi come un punto di arrivo.

Sul piano di realtà occorre aggiungere che Guido, già nell’incontro di gruppo successivo, ha cominciato ad usare le mani – fino ad allora apparentemente inabili ad alcunché non fosse un lancio – per spostare tavoli e talvolta anche per usare le matite
Conclusioni
Adesso, ripensando insieme a questi anni e riguardando gli appunti ci siamo fatte un’idea più chiara di quando e come il gruppo ha cominciato a fondarsi, quando cioè la stanza ha perso la connotazione di oggetto-sé rudimentale, divenendo il punto d’incontro di un gruppo di bambini con i loro rituali e la loro piccola storia comune, fatta del ricordo di quelli che non vengono più, dei giochi che si possono ripetere e continuare da una volta all’altra, dei disegni che alludono, per numero dei soggetti, al gruppo, e soprattutto della sempre maggiore consapevolezza dell’altro.

E qui torna alla mente l’episodio in cui Giulio, osservando Guido in piedi sul tavolo, ha prodotto quasi un’interpretazione: “Guido fa il gigante” e Guido si è fatto rosso perché si è sentito scoperto…
Adesso l’interrogativo, per noi, si è spostato sulla natura del motore terapeutico.

Credo che la scelta di lavorare con un piccolo gruppo di bambini, operando come gruppo di terapeuti, abbia consentito di avviare un processo dinamico, agendo sulla situazione terapeutica sia dal lato dei pazienti, che da quello dei conduttori Riguardo a quest’ultimo punto è da tenere presente che il confronto con situazioni di psicosi grave impegna l’analista sia nello sforzo di dare significato a tracce informative molto labili o molto caotiche, sia per la necessità di mantenere una presenza adeguata alla situazione, contrastando le proprie difese da spinte regressive avvertite come troppo minacciose.

La tematica inerente la risposta profonda del terapeuta, che affonda le sue radici negli interrogativi che si pongono ben presto agli analisti nel setting individuale, è stata variamente focalizzata da diversi autori che hanno comunque posto l’accento sull’amplificazione delle spinte regressive nel setting gruppale e conseguentemente sull’immediatezza della pressione inconscia sul conduttore.
Per tutti ricordo J. Gordon, che, interessato all’interdipendenza dei legami emotivi e dei processi di pensiero, pone l’enfasi su quegli stati del gruppo in cui l’annullamento delle capacità di generare comprensione si accompagna ad una atmosfera gruppale quasi ipnotica, e rileva come solo il riconoscimento di questi stati da parte del terapeuta può consentire l’elaborazione della relazione oggettuale interna terrificante ad essi sottesa. In questo senso la riflessione comune, successiva a ciascuna seduta, ha fornito fin dall’inizio un luogo di elaborazione dei sentimenti di impotenza ed inadeguatezza, ma ancor più ha funzionato come difesa strutturata verso l’ansia di regressione, consentendo alle analiste di entrare in contatto, nel corso degli incontri, anche con dimensioni gravemente danneggiate.

D’altro canto la costituzione di uno spazio per ripensare quello che è stato, attraverso ciò che, subito dopo, noi di volta in volta sentiamo, ha permesso di creare uno scarto, sia pur minimo, fra la ripetitività del sintomo immutabile, da un lato, e il senso delle sequenze, che, fin dall’inizio, abbiamo voluto considerare come esistente, anche se non riuscivamo ad impossessarcene.
Così, nello scorrere apparentemente uguale delle sedute, la riflessione successiva si è posta quale unico elemento insaturo presente fin dall’inizio di questa vicenda terapeutica.

E questo pensare ai bambini nella stanza come ad un gruppo, quando ancora non appariva come tale, ha fondato il gruppo delle terapeute, dotando così l’intero gruppo di una matrice dinamica, cioè di un ambiente psichico nel quale hanno potuto svilupparsi i primi moti dei bambini verso l’altro.

Riteniamo che questa matrice dinamica abbia agito sulla situazione terapeutica innanzitutto offrendo la possibilità di introiettare una forma relazionale percepibile in qualche modo fuori da sé a bambini che non erano in grado di avere scambi fra di loro e che mantenevano ad un livello minimo anche gli scambi con le analiste.

Al tempo stesso, la pluralità dei terapeuti ha permesso di assolvere alla funzione di Io ausiliario per più bambini contemporaneamente, facilitando i primi movimenti di avvicinamento e la sperimentazione della relazione in un’atmosfera di sicurezza. In una situazione psichica in cui era inibita anche la minima presa di contatto con l’altro, come pure la più elementare esperienza della propria affettività, il gruppo di terapeuti, attraverso il nucleo di scambi transferali propri e l’elaborazione dei sentimenti profondi verso la situazione gruppale, ha assunto la funzione di un sé ausiliario, laddove probabilmente non avrebbe potuto assumere questa funzione l’insieme di un conduttore con bambini non ancora in grado di scambi fra loro.

Bibliografia
Foulkes s. H. 1975 La psicoterapia gruppoanalitica – casa Editrice Astrolabio Roma 1976
Gordon J. in Schermer V.L. e Pines M. 1994 Il Cerchio di fuoco Raffaello Cortina Editore -Milano 1998
Nacht S. 1959 Sulla tecnica di inizio della Terapia analitica tr. it. in Guarire con Freud –Newton Compton editori Roma 1974
Nucara G., Menarini R., Pontalti C. 1989 La matrice neotenica nella gruppoanalisi Archivio di Psichiatria, Psicologia – Roma 1989
Winnicott D. W. 1988 Sulla natura umana Raffaello Cortina Editore – Milano 1989